Questa è la versione in italiano di un guest post su vDestination.
Di solito (soprattutto in paesi come l’Italia) si parla del cosiddetto “divario digitale” (digital divide) considerando solo gli aspetti della non equità, o almeno non pari opportunità, nell’accesso e fruizione delle tecnologie digitali. Ma spesso ci si focalizzata eccessivamente sugli aspetti di connettività e le modalità di accesso alle reti a banda larga e di come potrebbe essere limitanta per qualcuno. Vero che è un aspetto importante che può limitare la crescita tecnologica e che, purtroppo, lo ha sempre fatto: chi si ricorda dell’infame TUT e di quanto limitava l’uso dei primi modem, ma soprattutto chi, come me, pagava cifre assurde sono perché non in un grosso centro urbano? (che poi io ero nel centro urbano come territorio, ma chissà come mai non per la società di telecomunicazioni)
Ma questo è solo un aspetto e, benché importante, ve ne sono anche tanti altri che devono essere considerati! Paradossalmente sempre di velocità si parla, ma delle differenti velocità nelle quali viaggia l’IT in diverse situazioni.
Il primo aspetto che voglio descrivere è il country divide, principalmente legato alla posizione geografica. In parte potrebbe anche essere correlato al precedente aspetto, in quanto l’accesso alla banda larga di solito dipende da aspetti geografici, ma potrebbe assumere molte altre sfaccettature.
In primo luogo la posizione geografica (e paradossalmente vale sia a livello di nazione nel mondo, ma anche localmente a livello di città rispetto alla propria nazione) potrebbe limitare le opportunità di lavoro, partecipare a eventi (ma anche certificazioni o altre attività), influire sui costi di trasferta (e soprattutto nei tempi richiesti) e così via.
Per esempio, in Italia non faranno mai grandi eventi internazionali, almeno nel mondo dell’IT (in realtà c’è stata qualche rara eccezione), questo vuol dire che per partecipare ad un VMworld, and un TechEd o altri eventi simili bisogna pianificare trasferte all’esterno con i costi connessi. Alcuni eventi (come quelli citati) hanno anche edizioni europee, ma non è proprio la stessa cosa (quelli internazionali sono a mio parere diversi e vanno vissuti almeno una volta), ma non vale per tutti… ad esempio Citrix ha sospeso il Synergy in Europa e il VMware PEX o il Microsoft WPC sono solo in America.
Ma a livello locale non è che cambi poi tutto: anche solo sostenere un esame per una certificazione o di partecipare a un evento per me (che non vivo a Milano o in una delle poche “città dell’IT”) vuol dire spendere (almeno) 2-3 ore di viaggio, che significa anche altri costi da aggiungere connessi per spese di viaggio oltre al tempo che viene sacrificato alla famiglia o al tempo personale.
Ma per le certificazioni di alto livello, come VCDX (o MCM) è persino peggio e vivere in una nazione “secondaria” (dal punto di vista dell’IT) è altamente penalizzante, visto che tali certificazioni richiedono trasferte all’estero e questo potrebbe davvero limitare l’accesso a questo livello di certificazioni. In parte sta cambiando: almeno da qualche anno è possibile sostenere gli esami VCAP in alcuni, e secondo me troppo pochi, centri in Italia, ma è solo un mitigare leggermente il problema riportandolo a livello locale.
Questa forma di geographic divide rimane comunque un problema non trascurabile, visto che non aumenta solo la spesa di viaggio, ma richiede anche più tempo, e magari comportare anche possibili problemi logistici (ad esempio visti per o autorizzazioni simili e da questo punto di vista in realtà siamo abbastanza fortunati perché normalmente non ne abbiamo bisogno). Paradossalmente penso che questo non cambi troppo anche se ci si trovi negli Stati Uniti, ma in una piccola città non ben servita con un buon aeroporto o trasporti capillari, forse i problemi di natura geografica potrebbero essere praticamente gli stessi.
Non potendo annullarli, l’unico modo è trovare formule per ridurre almeno i costi vivi. Tanto vale partecipare a concorsi dove in palio vi sono biglietti per eventi o persino viaggi spesati (era stato, ad esempio, il caso del concorso di vDestination che ha messo in palio una buona occasione per partecipare al VMworld US). Inoltre conviene essere propositivi e, magari cogliere queste occasioni per visitare posti nuovi o estendere il periodo con giorni di vacanza, portarsi la propria famiglia (curioso come si siano diffuse anche attività extra-eventi, come quelle dedicate alle mogli), …
Quando ho intrapreso il mio percorso verso la certificazione VCDX (dove, agli albori di questa certificazione, anche per gli esami “VCAP” ho dovuto viaggiare all’estero), ho usato questo approccio e affrontato la sfida partecipando al mio primo VMworld UE (a Cannes) per l’esame di DCA, visitato Madrid per l’esame DCD e frequentato il mio primo VMware PEX (prima occasione anche per visitare Las Vegas) per la difesa VCDX. Quindi, per questo aspetto, a meno che non si viva in un qualche “polo informatico”, non si può fare di più, ma sicuramente non utilizzarlo come una scusa: potrebbe essere una limitazione, ma molte altre persone sono nella stessa situazione, quindi bisogna comunque cercare di non farlo diventare un problema e sfruttare tutte le occasioni possibili (ovviamente saranno meno, e forse bisognerà centellinare e ponderare le scelte).
Ci sono anche altre limitazioni legate al paese: per lo più il linguaggio e gli aspetti culturali. Il language divide naturalmente è (o potrebbe essere) una limitazione per tutte le persone non madrelingua non inglese, visto che l’inglese è praticamente la lingua “ufficiale” nel settore IT (o meglio si potrebbe dire che è lo standard “de facto”). Alcuni paesi (come la Germania, ma soprattutto la Francia e la Spagna) hanno una politica di “protezionismo” sulle proprie lingue madri (si pensi al fatto che persino i termini IT sono tradotti in francese e spagnolo); questo da un lato valorizza la loro lingua, dall’altro potrebbe incrementare questo divario (sempre sul discorso VCDX forse non è un caso ve ne siano pochi francesi e spagnoli). L’Italia essendo (almeno nei vocali) fortemente esterofila non ha questo aspetto: i termini sono generalmente in inglese, ma lo sono spesso anche i programmi, i documenti, i corsi, … Ritengo che senza un buona padronanza dell’inglese si vada poco lontano (sia per l’IT, ma anche per lavoro e turismo) e quindi non va visto come un limite, ma bensì come una ragione in più per perfezionare la lingua.
Ma onestamente penso anche che sia davvero necessario avere un minimo di “localizzazione dell’IT”, almeno per alcuni contenuti (sicuramente per alcuni corsi e in generale per vari contenuti come blog e alcuni documenti), e iniziative come vLATAM o i tentativi di localizzate le difese VCDX (solo per portare due esempi, ma volendo ve ne sono tanti altri, come i Linux Documentation Project in varie lingue) sono veramente importanti e preziose. Ma, come già osservato, questo può anche aumentare questo tipo di divario e comunque sfavorisce le lingue “minori” (anche se in questi casi si dovrebbe più considerare l’aspetto culturale, visto che spesso le lingue “minori” educano da un’ottima conoscenza delle lingue).
Il paradosso è che poi vi sono messaggi discordandi sulla reale necessità (od interesse) nei contenuti IT localizzati in varie lingue. Come esempio potrei portare il mio blog: è sia in italiano che in inglese. L’aspetto interessante è che, secondo il sito di statistiche, l’accesso dagli Stati Uniti corrisponde al più del 50% (ok, sono molti di più di noi, ma si tratta comunque di un dato davvero impressionante). Ma l’aspetto divertente è che l’accesso italiano è solo terzo (visto che il secondo posto è per i tedeschi)! Quindi non è così strano che altri blogger italiani si stiano concentrando (principalmente) sulla parte inglese del loro sito (alcuni hanno scelto di bloggare solo in inglese).
Comunque, per ora mi rimane la convinzione che i contenuti localizzati a volte sono necessari (e quindi per ora continuerò con il doppio posto), perché siano precisi (ad esempio un esame in Italiano va bene, perché la traduzione abbia senso, ma piuttosto che rischiare un’esperienza tipo MTA, preferisco sempre gli esami in inglese), pur confermando che l’inglese è e deve essere la lingua principale dell’IT.
La soluzione più logica è, quindi, cercare di migliorarlo! Mi spiace di averlo studiato poco a scuola (e forse pure male, visto che ai tempi non mi piaceva) e ora ho poco tempo per perfezionarlo (soprattutto nella parte parlata, nella quale rimango ad un livello appena sufficiente). Il paradosso è che comunque il divario sulla lingua potrebbe comunque essere una limitazione, per esempio in eventi internazionali (nelle opportunità di speach), nella possibilità di scrivere white paper tecnici o libri (libri in italiano sull’IT hanno davvero così scarso interesse per le case editrici?), in corsi, … Rimane solo di cercate di fare del proprio meglio e portare contenuti originali (magari anche nella propria lingua), ma in ogni caso dando un occhio di riguardo all’inglese.
Un altro legato alla nazionalità è il cultural divide. Questo probabilmente è il limite peggiore e spesso incolmabile (più volte ne abbiamo parlato all’interno del VMUG italiano) perché potrebbe non solo può frenare l’evoluzione dell’IT, ma diventa anche il come poi siamo visti all’estero o il “peso” che una nazione può poi avere. Con le conseguenze che poi si influenzano anche le opportunità di lavoro e tutte le altre opportunità legate all’IT (ad esempio eventi)!
Se ci fermiamo ad alcuni aspetti, come (ad esempio) il cibo e la moda l’Italia è vista come modello e punto di riferimento, ma purtroppo questo non vale nel settore IT. Ed è paradossale, visto che abbiamo avuto un ruolo fondamentale nell’innovazione tecnologica, contribuendo anche ad una parte della storia informatica (tanto per fare due esempi, si pensi al creatore del microchip o all’eccellenza rappresentata da Olivetti nel suo periodo d’oro). Ma purtroppo abbiamo perso anche diversi treni con la conseguente fuga di diversi cervelli, ma come pure un numero rilevante di gravi errori industriali e strategici (uno di tutti: basti pensare che Acorn, ora ARM, era una controllata Olivetti!).
Quindi quali quindi le opportunità (IT) in un paese con questo tipo di divario culturale? Probabilmente (molte) meno di altri paesi e non è un caso che conosco sempre più persone (nell’ambito IT) che hanno cercato spazi in altri paesi (USA, Messico, Australia, Germania, Svizzera solo per citare alcune destinazioni, ma aumentano anche quelle relative al Medio Oriente o Asia)… Potrebbe essere semplicisto e retorico affermare che dobbiamo restare per apportare i necessari cambiamenti a livello locale, il problema è che a volte non è possibile (e sicuramente non è né facile né veloce). Gli aspetti culturali sono anche strettamente correlate alle generazioni e (almeno in Italia) abbiamo bisogno che le generazioni che detengono il potere o le capacità decisionali, inizino a ragionare in modo diverso. Non è solo un aspetto politico (sul quale si rischierebbe di spendere fiumi di caratteri), ma anche di chi prende le decisioni, in alcuni casi con criteri opinabili.
Questo aspetto culturale porta implicitamente anche al divario generazionale (age divide). Risulta abbastanza chiaro che le nuove generazioni (in particolare la generazione Y) hanno diversi vantaggi: in particolare possono utilizzare le nuove tecnologie più velocemente di altre persone (inclusa la mia generazione), ma hanno anche a disposizione molta più tecnologia, decisamente più evoluta e accesso ad un’immane quantità di informazioni. Ma riescono davvero a sfruttare questi vantaggi ed ad imparare meglio di altre generazioni? Spesso l’apprendimento delle nuove generazioni è più di tipo intuitivo che deduttivo e bisogna considerare due diversi aspetti. Se sono un utente (o un consumatore), è effetivamente un vantaggio perché non c’è la necessità di capire veramente come funziona, bisogna solo essere in grado di utilizzare in modo più veloce ed efficace lo strumento. Ma se si è coinvolti in alcuni degli aspetti informatici è opportuno anche capire e comprendere alcuni aspetti tecnici.
Molti giovani hanno talento, ma non credo che ci sia molta differenza confrontando la mia generazione (o ad altre); hanno solo delle condizioni al contorno diverse che possono facilitarli: in particolare avete più possibilità di trovare o condividere le informazioni, accedere e testare le tecnologie, … tutte cose che non erano così semplici vari decenni fa (mi ricordo ancora la prima distribuzione Linux su un numero spropositato di floppy!). Ovviamente ogni generazione più vecchia (o si dovrebbe dire più matura) appare come giurassica per una generazione più giovane… ma a parte alcuni casi (che poi sono guardacaso in una qualche posizione decisionale e si tornerebbe al divario culturale…) ogni generazione può dire la sua!
Come considerazione finale, ci si potrebbe chiedere se esiste anche un gender divide!? Sarà anche vero che uomini e donne hanno (o almeno dovrebbero avere) pari opportunità, ma curiosamente l’IT (o almeno in una buona una parte) non riflette questa uguaglianza, almeno non nei numeri: la verità (o almeno la mia convinzione) è che non vi è una particolare discriminazione, ma rimane questa ripartizione sbilanciata (basta vedere la percentuale di uomini system admin, molto vicina al 100%). Evidentemente certi campi sono più allettanti agli umoni che alle donne.
Per concludere davvero cerchiamo di considerare un ulteriore aspetto che non è strettamente legato al IT, ma sulla parte sociale indotto da esso: vi è (o vi potrebbe essere) anche una dietary divide? Magari sembra uno scherzo (e spesso lo usuamo con questa accezione nel VMUG italiano, durante le vBeers, per chi è astemio), ma ci sono anche aspetti seri (considerando per esempio le persone che soffrono di intolleranze). Comunque sia i vBeers che le altre attività sociali sono pensate per incontrare e scambiarsi le esperienze e opinioni, non (solo) per mangiare o bere.